POLITICA
Che tenerezza gli ultimi grillini
L’indignazione di tanti riferimenti e militanti dei Cinque Stelle che gridano allo scandalo per l’accordo su Fico con il Pd di De Luca, con Mastella e via cantando sono prigionieri di una bugia, di una visione della politica che è essa stessa negazione di ciò che la politica è: l’arte del possibile per trasformare la realtà. Una visione che può trovare senso solo nel culto del purismo, della solitudine e dell’isolamento
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Fanno tenerezza i riferimenti del Movimento Cinque Stelle che sui territori spargono indignazione per l’accordo sulla candidatura di Roberto Fico alla presidenza della Regione. Fanno tenerezza perché provano a ribellarsi all’ineluttabile, perché, a bene vedere, prigionieri di una bugia e, dunque, di una visione della politica che può trovare senso solo nel culto della solitudine e dell’isolamento. Quando, ormai molti anni fa, chiesi a Ciriaco De Mita cosa pensasse di Beppe Grillo e del Movimento Cinque Stelle, ottenni come al solito una risposta illuminante: un malato ha tutto il diritto di urlare per il dolore che prova, ha tutto il diritto di lamentarsi. Ma se accanto al malato si mette ad urlare pure il medico, che invece avrebbe il dovere di individuare la cura, allora non c’è speranza. Eravamo davvero ai primissimi vagiti del grillismo ma De Mita, come sempre gli capitava, aveva già capito tutto.
I tanti militanti del Movimento Cinque Stelle che gridano allo scandalo per l’alleanza con il Pd di De Luca, con Mastella e via cantando, fanno tenerezza perché sono prigionieri di un’idea della politica che è essa stessa negazione di ciò che la politica è, fintanto che la si esercita in ossequio alle regole della democrazia rappresentativa: l’arte del possibile per trasformare la realtà.
La via più facile per rivendicare ragione è limitarsi a contemplare la realtà, denunciarne le storture. La via più semplice per ottenere consenso è indicare soluzioni impercorribili nel nome del cambiamento necessario, rifiutare la logica democratica, che si alimenta nella ricerca di una sintesi tra diversi, trincerarsi nell’isolamento del purismo, nel massimalismo delle parole, rinunciando all’ambizione di incidere, di trasformare l’esistente, di mettere in discussione lo status quo.
Non c’è dubbio, dunque. Il Movimento Cinque Stelle ha tradito se stesso ma non ha certo iniziato oggi in Campania o in Toscana. Il Movimento ha tradito se stesso nello stesso momento in cui ha deciso di accettare la sfida del governo, ha tradito quelle che Grillo definiva le parole guerriere nello stesso momento in cui è arrivato al timone del Paese, perché per arrivarci ha dovuto necessariamente accettare la logica del dialogo e della contaminazione, la logica del governo, dunque della mediazione, della ricerca delle soluzioni possibili, della sintesi tra diversi.
Oggi, semplicemente, il Movimento Cinque Stelle altro non è che un partito come tutti gli altri. È parte. Dunque ha abbandonato il culto dell’equidistanza, del post ideologismo, dell’uno vale uno. E lo ha fatto per sopravvivere, perché ci si candida per cambiare, non per teorizzare il cambiamento senza farsi carico delle condizioni necessarie a renderlo concreto, possibile. Perché, per dirla in altri termini, i voti si contano e non si pesano, e per governare serve la maggioranza, serve stare insieme agli altri, serve rinunciare a parte delle proprie ragioni per farsi carico del tutto. Nelle urne, e solo nelle urne, uno vale uno.
Oggi il Movimento si pone a servizio di una prospettiva utile, quella della costruzione di un campo progressista sufficientemente largo e forte per puntare a governare l’Italia. Lo fa anche a partire dalla Campania di Mastella e di De Luca, perché questo è il gioco della politica, queste sono le regole della politica e della democrazia.
Chi non è disponibile a farsene una ragione avrà sempre una bacheca social dove vomitare indignazione e disappunto, dove teorizzare la rivoluzione, dove continuare ad avere ragione.