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“Dietro ogni sirena c’è una storia”: Francesco De Stasio, l’avvocato in ambulanza che ha scelto di salvare vite umane

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C’è chi sceglie la toga, chi la divisa. E poi c’è chi, come Francesco De Stasio, ha indossato entrambe — ma ha scelto quella che pulsa al ritmo di un cuore da salvare. Trent’anni fa era un ragazzino curioso, con la passione per il pallone e lo sguardo sempre attirato dalle luci blu delle ambulanze. Oggi è un volto conosciutissimo dell’emergenza a Benevento, punto di riferimento storico della Misericordia, professionista del 118, e anima instancabile della formazione sanitaria sul territorio sannita.
L’ho raggiunto al telefono, in un momento rubato tra un intervento e una riunione operativa. Con lui abbiamo parlato di storie che restano sulla pelle, della forza dell’umanità nei momenti più bui, di politica e sacrifici, della bellezza del volontariato, e di come, nonostante tutto, ci sia ancora tanto in cui credere. Ne è venuta fuori un’intervista che è un viaggio, un abbraccio, uno squarcio di verità. E sì, anche un pugno allo stomaco.
«Io ho una laurea in giurisprudenza», racconta. «Avrei potuto fare l’avvocato a tempo pieno, guadagnare bene. Ma non era la mia vita». La sua vita, invece, ha preso un’altra strada — anzi, una corsia preferenziale: quella del pronto intervento. «Ho iniziato a 16 anni, un ragazzino come tanti, attratto dalle sirene delle ambulanze che passavano nel mio quartiere Ponticelli. Avevo uno zio nella Misericordia di Benevento. Mi sono avvicinato al volontariato e non ne sono mai uscito». Da lì, una carriera lunga decenni, vissuta “a sirene spiegate”, ma con l’anima in ascolto.
Ci sono storie che non si dimenticano. Ferite che non si rimarginano. «Il soccorso che mi porto dentro è quello di un ragazzo di 14 anni, deceduto un paio di anni fa per un malore. Lo conoscevo. Ho fatto il massaggio cardiaco, ma non ce l’ha fatta. Lo sguardo di quel bambino… me lo porto ancora dentro quando salgo sull’ambulanza». Poi ci sono le calamità: Sarno, L’Aquila, Benevento, il fango, la paura. «In Abruzzo c’era anche mio fratello. Soccorrevo gli altri e pensavo che lì in mezzo c’era anche lui. Ti cambia». Ma anche tra il dolore, c’è qualcosa che resta intatto: l’umanità. «Dietro ogni sirena c’è una storia. Non lo dobbiamo dimenticare mai».
Francesco non ama sentirsi chiamare “eroe”. Ma sa bene cosa vuol dire esserci, sempre, anche quando non ti vede nessuno. «L’eroe vero è chi si ferma a soccorrere quando accade qualcosa. Chi sa usare un defibrillatore, chi non si tira indietro. Il volontariato ti arricchisce come uomo. Non è una perdita di tempo. Ti restituisce in emozione quello che non ti darà mai un ricco stipendio». E lo dice uno che, ancora oggi, lavora al 118 e continua a fare il volontario. «Appena finiamo questa chiacchierata, andrò alla sede della Misericordia a programmare le attività».
Quando si parla di sanità, Francesco non ha peli sulla lingua: «C’è bisogno di resettare tutto. Mancano medici, guardie mediche, punti di primo soccorso. La gente chiama il 118 per la febbre perché non ha alternative. E intanto le risorse si consumano». Ma al di là di tutto, Francesco fa una richiesta che è quasi una preghiera: «Abbiate fiducia in noi. Siamo persone. Padri, madri, figli. Anche noi potremmo essere dall’altro lato, in attesa di un’ambulanza. E ce la mettiamo tutta, credimi. Ogni volta». Anche chi salva la vita ha infatti paura. «Soprattutto durante il Covid. Ogni volta che mi vestivo per entrare in una casa, avevo paura. Ma è una buona compagna, ti aiuta a non sbagliare. Ti tiene sveglio. Lucido. Umano».
Umano: è forse questa la parola che meglio descrive Francesco. La sua è una storia fatta di carne, sudore, occhiaie, abbracci, lutti, rinascite. E un cuore che, a ogni battito, ripete la stessa cosa: “Nulla è impossibile”.
Oggi Francesco è anche responsabile della formazione a Benevento e provincia. Tiene corsi, progetta interventi, insegna il primo soccorso. Ma vorrebbe qualcosa di più. «Bisogna partire dai bambini. La formazione dovrebbe iniziare già alle scuole elementari. Perché saper intervenire salva la vita. Il defibrillatore non è un mostro: è un elettrodomestico che ti guida. Non bisogna averne paura». E lo dice con la stessa passione con la quale, da ragazzino, guardava passare le ambulanze e pensava: “Un giorno voglio essere lì dentro”.
Prima di salutarci, Francesco lancia un ultimo appello alla sua città, a Benevento. «Provateci. Provate a fare volontariato. Non è solo per chi ha tempo o non ha un lavoro. È per chi ha voglia di dare. E ricevere molto di più». Nel suo racconto si incastrano legami indissolubili: «Ho fatto da padrino ai figli di ragazzi che ho conosciuto durante gli interventi. Siamo fratelli. Perché certe esperienze ti uniscono per sempre».
In trent’anni ha visto tutto. Ha toccato il dolore, la disperazione, l’inadeguatezza del sistema, la fatica. Ma se gli chiedi cosa ha imparato, non ha dubbi: «L’empatia. La sofferenza delle persone. E che nulla, davvero nulla, è impossibile». E forse, allora, dietro ogni ambulanza non ci sono solo luci e sirene. C’è un uomo che corre. Un cuore che batte. E una mano, come quella di Francesco, pronta ad afferrarti. A non lasciarti andare. A dirti che sì, puoi farcela. Anche stavolta. Anche all’ultimo secondo.