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ECONOMIA

Verso il bilancio sociale degli enti camerali: la proposta della studiosa sannita Oliva

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Conciliare produttività con il benessere sociale rappresenta una delle sfide più importanti dell’attuale contesto socio-economico post capitalista, se si vuole tentare di superare le conseguenze negative dell’approccio economico basato sull’idea del profitto a tutti i costi.

Sempre più negli ultimi decenni soggetti imprenditoriali e amministrazioni pubbliche, che devono fare i conti con una maggiore e sempre più frequente scarsità di risorse, tendono a invertire la rotta, introducendo nelle proprie azioni l’imperativo etico della responsabilità sociale, consapevoli dei benefici in termini di credibilità e di rafforzamento del legame con il contesto territoriale in cui si opera.

A questo tipo di tematiche la dottoressa Nadia Oliva, docente a contratto di Economia aziendale presso l’Università telematica Giustino Fortunato, con sede anche a Benevento, ha dedicato il saggio dal titolo “Il bilancio sociale integrato per le Camere di Commercio – una proposta alla luce dell’esperienza lombarda”.

La studiosa ha conseguito, inoltre, il dottorato di ricerca in Programmazione e Controllo presso l’Università degli Studi di Firenze ed è stata assegnista di ricerca presso l’Università del Sannio e componente del gruppo di studio per il bilancio sociale che ha formulato la proposta di Linee guida per la rendicontazione territoriale.

Perché questo saggio?
Il saggio intende inizialmente fornire un tassello al recente dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese ponendosi in chiave critica nei riguardi del moderno capitalismo e del modo con il quale, in linea generale, si continua a rincorrere l’obiettivo dell’efficienza, della competitività e del profitto.

Il modo di pensare oggi la produttività, in particolare, è permeato dal dominio delle politiche di deregolamentazione dei mercati (in primis quello del lavoro) e della logica della delocalizzazione delle attività produttive che, come cerco di evidenziare, sono discutibili sia sul piano dell’efficacia – basti pensare ai crescenti divari economici tra paesi dell’area euro – che dei loro effetti sull’assetto sociale e territoriale (si pensi ad esempio all’elevato tasso di disoccupazione italiano così come al processo di desertificazione industriale che molte aree del mezzogiorno sperimentano continuamente).

A fronte di performance economiche tutt’altro che entusiasmanti, la moderna rincorsa alla competitività e al profitto spinge – e in alcuni casi quasi obbliga – parte delle realtà produttive, soprattutto quelle che si pongono al margine dei mercati, ad adottare strumenti e strategie volte ad abbassare i costi di produzione a scapito della responsabilità venendo quindi meno a quelli che dovrebbero configurarsi come patti solidali con le comunità locali, con i consumatori, con gli stessi lavoratori e, aggiungerei, con le generazioni future.

Nel saggio si cerca di dare conto delle opportunità che la responsabilità sociale offre alle imprese al fine di migliorare le proprie performance soprattutto in termini di creazione di valore e delle tecniche di rendicontazione sociale attualmente in auge.

Accanto a questa visione d’insieme, il saggio approfondisce poi la questione della responsabilità sociale nelle amministrazioni pubbliche e, in particolare, nelle Camere di commercio; ciò alla luce delle riforme che hanno interessato la pubblica amministrazione negli ultimi anni e che hanno spinto l’acceleratore delle riforme istituzionali verso la trasformazione degli enti pubblici in autonomie funzionali con il compito di gestire, con veste sempre più d’impresa e in senso manageriale, le proprie funzioni.

Nell’attuale scenario istituzionale, quindi, ciò che si chiede alle Camere di commercio è di gestire le proprie funzioni – quali quelle amministrative, di promozione e supporto alle imprese, di regolazione del mercato, di analisi, studio e promozione dello sviluppo del sistema economico locale – secondo principi imprenditoriali. Efficacia, efficienza, continuità, sostenibilità ecc. diventano così categorie che si integrano a pieno titolo nel management pubblico come per qualunque impresa tradizionale. Se è vero, però, che il tentativo di plasmare la gestione pubblica in chiave ‘privatistica’ sia giustificabile dal tentativo di incrementare l’efficacia e l’efficienza del servizio pubblico, dall’altro ci si deve porre l’interrogativo legittimo circa il pericolo che l’investitura imprenditoriale possa snaturare la finalità sociale dell’ente.

Come conciliare, quindi, la diffusione della veste d’impresa nelle Camere di commercio con la salvaguardia della propria finalità sociale? Beh, una risposta ci viene fornita proprio dalla responsabilità sociale che si configura come moderno strumento di riequilibrio degli interessi di parte e di internalizzazione delle istanze dei portatori di interessi.

Quanto è importante che le Camere di Commercio creino valore sociale?
Molto. Come ho già accennato prima la cultura imprenditoriale plasmerà sempre di più le modalità di gestione degli enti camerali. Ciò, si badi, non è male se si chiede alle Camere di commercio di svolgere efficacemente il proprio compito e di utilizzare al meglio le risorse a propria disposizione. Il pericolo, però, sta nel fatto che i principi della gestione virtuosa possano incanalare il management verso interessi di parte e obiettivi non propri.

Mi spiego meglio. Nella visione tradizionale d’impresa i manager sono chiamati a gestire efficientemente l’attività privilegiando l’interesse legittimo dei proprietari ad ottenere la massima remunerazione come premio per il rischio che essi assumono apportando capitale. Prevale, quindi, l’interesse di parte (quello cioè dei proprietari); il profitto è, di conseguenza, l’obiettivo e la produzione (per il mercato) di beni e servizi ne diventa lo strumento. Ora, nel caso delle Camere di commercio è evidente invece che, data la loro natura di ente pubblico, l’obiettivo dovrebbe essere il servizio (non per il mercato) e l’equilibrio economico-finanziario uno strumento.

Ma se, invece, la cultura imprenditoriale (e per il mercato) dovesse plasmare in totale indipendenza la gestione camerale il rischio è che possa cambiare anche la cultura camerale e l’idea degli interessi da tutelare. In questo senso il valore sociale si configura quindi come strumento strategico non solo, come giustamente siamo portati a ritenere, per supportare lo sviluppo territoriale ma anche per contrastare gli effetti distorsivi di un ‘eccesso di cultura imprenditoriale’ nell’ente pubblico. L’individuazione di tutti i portatori di interessi e delle loro istanze, accompagnata con una politica di creazione di valore sociale e di ponderazione della sua distribuzione costituiscono validi strumenti attraverso i quali le Camere di commercio possono svolgere il proprio operato nel rispetto dei principi imprenditoriali attenuando i loro eventuali effetti distorsivi. Accanto a questa importanza strategica, la creazione di valore sociale è al contempo funzionale all’incremento delle performance interne e allo sviluppo del territorio in virtù dei benefici diretti e indiretti che un maggiore (e migliore) coinvolgimento dei portatori di interessi consente.

In un momento storico in cui le imprese, specie quelle di medio-grandi dimensioni tendono a delocalizzare la propria attività verso paesi esteri, dove il costo del lavoro è più basso e mancano diritti e sicurezza sul lavoro con tutte le conseguenze di carattere etico e sociologico che ne derivano, quanto contano, se contano ancora, il ruolo e l’azione svolta dagli enti camerali?
L’azione delle Camere di commercio è oggi più che mai importante proprio per contrastare le derive dello sviluppo capitalistico da lei sottolineate. La capacità di contrasto delle Camere di commercio deve comunque inserirsi in un contesto di ampia collaborazione istituzionale e di modifica, almeno parziale, delle politiche per lo sviluppo che al momento, sfortunatamente, non sembra esserci.

Il processo di globalizzazione e deregolamentazione dei mercati ha spinto, infatti, le imprese a competere sui mercati nazionali e internazionali cercando di comprimere quanto più possibile i costi di produzione, in particolar modo il costo del lavoro. Da qui la corsa alla delocalizzazione produttiva nelle aree dove il costo del lavoro è basso e la spinta degli Stati alla ricerca di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro (si pensi qui alle innumerevoli riforme del mercato del lavoro che hanno caratterizzato il nostro Paese negli ultimi decenni) per ‘frenare’ le fughe dei capitali e attrarre investimenti. Ciò in ragione del fatto che, mentre da una parte, la flessibilità consentirebbe alle imprese di contenere e controllare le rivendicazioni salariali, dall’altro, una maggiore precarizzazione dei contratti di lavoro spingerebbe i lavoratori ad incrementare la produttività al fine di ridurre il rischio di licenziamento o di mancato rinnovo contrattuale. Se è vero che la flessibilità del mercato del lavoro ha avuto come esito certo l’abbattimento del salario è del tutto discutibile la sua efficacia in termini di produttività. Parte della letteratura, infatti, è concorde nel ritenere che la deresponsabilizzazione delle imprese nei confronti dei lavoratori sia di fatto causa della perdita di competitività delle imprese e che la bassa produttività sia conseguenza della contrazione degli investimenti derivante da una contrazione della domanda ovvero del deperimento del capitale sociale e umano piuttosto che da una rigidità del mercato del lavoro.

In quest’ottica il contesto sociale con il quale l’impresa è chiamata ad interagire diventa un attrattore degli investimenti se permette alle stesse di incrementare le performance. Ma non c’è nessuna ragione per ritenere che l’unico contesto sociale favorevole alle imprese sia quello di un luogo nel quale vige il principio della deresponsabilizzazione. D’altronde la deresponsabilizzazione sociale non è necessariamente senza conseguenze per le imprese se il contesto sociale conferisce credibilità e legittimazione all’impresa medesima. La perdita di reputazione di un’impresa, associata a una negazione del contesto sociale può generare così costi superiori ai benefici a tal punto da rendere inefficiente la delocalizzazione stessa.

Visto quindi in chiave propositiva il ruolo delle Camere di commercio è fondamentale nel creare quel valore sociale partecipando, assieme ovviamente agli altri interlocutori istituzionali, alla realizzazione e sviluppo di un contesto sociale favorevole alle imprese fornendo le condizioni ottimali di insediamento e di permanenza delle attività produttive. In condizioni ottimali, un impegno in tale direzione potrebbe innescare un processo cumulativo di responsabilità sociale che dalle Camere di commercio passa alle imprese e viceversa. Ciò in ragione del fatto che se un contesto sociale è tale da consentire alle imprese di avere performance elevate è altrettanto ragionevole ritenere che le stesse si attivino per mantenere tale contesto migliorando i rapporti con tutti i portatori di interessi. L’attivazione delle Camere di commercio a sostegno dello sviluppo locale può quindi generare un legame di appartenenza dell’impresa al territorio basato sulla condivisione di valori e sull’equilibrio degli interessi di parte.

Quale messaggio vuole lanciare alle istituzioni in un momento come quello attuale in cui alcuni enti camerali, come quello di Benevento, subiscono trasformazioni, accorpamenti e il loro ruolo di riferimento territoriale per le imprese che resistono alla crisi economica diventa sempre meno determinante?
Collaborazione e impegno. Come accennato prima, le istituzioni pubbliche sono oggetto di trasformazione ma questa trasformazione perché possa realizzarsi nel miglior modo possibile, e senza distorsioni, deve avvenire in un contesto nel quale le mission istituzionali si mantengono vive. In tale prospettiva le Camere di commercio devono svolgere le loro funzioni riconoscendosi al pieno servizio delle realtà produttive locali e incentivando le collaborazioni con esse al fine di pervenire a risultati positivi per il territorio che siano certi e duraturi. Solo in questo modo le imprese, soprattutto quelle che oggi soffrono maggiormente della crisi economica e che perdono costantemente, per ovvie ragioni, fiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche, possono conferire piena credibilità all’ente camerale traendo utilità dai sui servizi e impegnandosi a loro volta nello sviluppo sostenibile e condiviso del territorio.

Quale futuro intravede, sulla base della sua analisi e in funzione dei cambiamenti in atto, per il nostro tessuto imprenditoriale?
Non è facile prevedere il futuro per il nostro tessuto imprenditoriale. Ciò che però emerge è che le imprese, al fine di superare l’attuale crisi economica e di vincere la sfida della competitività, non possono essere lasciate da sole. Occorre che lo spirito collaborativo tra istituzioni e imprese emerga realmente; in questo senso la responsabilità sociale può divenire uno strumento valido di supporto e di crescita delle performance ma ovviamente non può essere considerato come panacea di tutti i mali. Si tratta di uno strumento che, pur valido, deve rientrare in un più ampio sistema di che inglobi politiche parallele come quelle industriali, di sostegno alla domanda, di tutela dei prodotti, di incentivazione agli investimenti, alla formazione, allo sviluppo tecnologico.

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